Lisa Joseph lavora da Starbucks, uno dei templi del caffè dove l’espresso è ben più buono del caffè americano, anche per noi italiani. Abita al Bronx e tutti i giorni viene a Manhattan a dividere pochi metri quadri con tre colleghi, di colore come lei.

Durante il mio breve soggiorno nella Grande Mela scelgo questa caffetteria per la mia colazione dopo un attento giro intorno a Times Square, la zona del mio ostello. Qui, all’angolo tra la trentacinquesima e l’ottava, mi sento davvero a mio agio: il luogo è carino, ben arredato e ben servito anche grazie allo staff che vi lavora. Inoltre da qui posso proseguire comodamente, a piedi o in metro, alla scoperta di una New York sfolgorante nella luce di fine estate.

Ogni mattina entro e chiedo la stessa cosa, un espresso doppio ed una treccia alla cannella, mi basta sentire il profumo di caffè e mi sento a casa. In questo negozio però si respira un’aria speciale ed il secondo giorno non resisto, mi avvicino al bancone e chiedo a Lisa se assieme alle decine di gadget marcati posso acquistare un cappellino. Non so cosa mi porta a chiederlo, forse è solo un irresistibile desiderio di comunicare anche perché alla mia età altro che cappellino, le mie amiche sono alle prese con i pannolini e le pappe per i loro figli.

Io invece niente, non voglio crescere e colla mia solita cocciutaggine ho deciso che voglio quel cappellino ad ogni costo. Lisa mi guarda, per nulla stupita, ci pensa un attimo e gentilmente mi risponde “mi dispiace, fa parte della mia divisa e poi io stessa ho dovuto comprarlo, l’ho pagato quattro dollari”. “Be’, ma allora puoi vendermi il tuo” replico, Lisa temporeggia e grazie allo scarso affollamento del locale la sua collega e lo shop manager Lionel intervengono nella nostra conversazione. Non si potrebbe, anzi ora non si può proprio, ma entro qualche giorno dovrebbero arrivare altri cappellini dall’azienda così mi suggeriscono di tornare dopo una settimana.

Non posso dico io, devo tornare a casa. Di dove sei? Mi chiedono in coro. Sono italiana, Venice è una parola molto evocativa per ogni americano. Oooohh, Veeenice! Sento sempre la stessa esclamazione ogni volta, seguita dai migliori aggettivi per descrivere quel che tutti immaginano ma che molti non hanno mai visto. Lisa non esita un attimo, prende carta e penna e me li porge: “Scrivimi il tuo indirizzo, ti manderò a casa il cappellino appena mi arriva”. Il suo gesto ha il potere di farmi perdere la faccia tosta che abitualmente sfoggio in queste circostanze, e per un attimo non so che dire, non vorrei costringerla a tanto ma lei insiste ed alla fine accetto. Esco contenta perché so ben poco di tutti loro, ma so per certo che si tratta di brave persone, generose e ben istruite a servire i clienti.

Un mese e mezzo dopo, a casa, scendo a prendere la posta. Siamo a metà ottobre e tra il mio incontro in caffetteria a New York e la posta di oggi c’è stato di mezzo l’undici settembre. Le torri gemelle si sono sgretolate ma dentro di me si affannano pensieri ed immagini, indelebili come pietre a ricordo della nostra labile esistenza. Oggi poi i giornali annunciano che negli Stati Uniti una persona è morta di carbonchio, forse inalato aprendo una busta infettata deliberatamente da qualcuno.

Anch’io oggi ho una busta da aprire, e non è un estratto conto della banca né una cartolina. Una busta grossa, gialla di quelle colle palline dentro, emerge dalla cassetta. Il mio nome è segnato col pennarello a grossi caratteri, con scrittura anglosassone, ed il mittente è Lisa Joseph, Bronx, New York, USA. All’inizio non mi ricordo di lei ed ho un tuffo al cuore, non vorrei aprirla tanto sono condizionata dalle pessime notizie americane. La tocco con cautela, ci penso, non può essere…

Apro piano la linguetta, vi infilo dentro una mano ed estraggo il mio nuovo cappellino di Starbucks: è bellissimo, nero col logo verde davanti, mi va benissimo. Ma c’è qualcos’altro all’interno, vi infilo nuovamente la mano e tutto d’un fiato leggo:

Ciao Roberta,

ecco il cappellino di Starbucks Coffee che desideravi tanto, penso lo volessi come ricordo. Ti ho aspettato nel mio negozio, speravo che ci ripassassi prima di lasciare New York. Be’, scrivimi o mandami una cartolina dall’Italia quando ricevi questo pacchetto.

Enjoy your cap”, goditi il tuo cappellino.

La tua amica

Lisa.

Non so cosa pensare, confusa da queste poche righe cariche d’affetto: perché l’ha fatto? Dove sarà ora, come starà nell’inferno che ancora sta attanagliando la Grande Mela ferita? Ho un ultimo tuffo al cuore quando leggo il timbro sulla busta: è datato lunedì dieci settembre, ha impiegato quattro settimane per varcare l’oceano e giungere nella mia cassetta della posta. Ed è partita appena in tempo.

Appena in tempo è la frase che mille volte mi sono sentita dire in questo mese dal mio ritorno da New York, ho visto le torri gemelle appena prima che crollassero, ho visto lo skyline di Manhattan la sera del primo settembre, splendido ed inconfondibile nell’ultima luna piena che si stagliava, luce sulle luci dei grattacieli, tutti al loro posto ma ancora per pochi giorni. Per un attimo la busta di Lisa mi fa rivedere i volti delle persone che ho incontrato sul mio cammino, le strade piene di gente d’ogni genere come si addice alla metropoli per eccellenza. E rivedo Lisa, minuta, giovane ma preparata nella sua divisa nera, grembiule e cappellino con logo verde. Vorrei esserle vicino, avere la possibilità di parlarle ed abbracciarla, ringraziarla. Non è possibile, scrivere ora è l’unica risorsa che ho, col punto di domanda se e quando le arriverà il mio grazie.

Rivedo anche Kenneth che a un anno ha lasciato Managua, in Nicaragua, con la madre, in cerca di un futuro migliore, con cui ho condiviso tre ore di volo tornando dalla Florida a New York. Seduta accanto a me la mamma mi ha raccontato la loro storia, visto che da tempo entrambi sono alle prese con i permessi di soggiorno, mentre sua madre li aspetta a Miami dove ha aperto una carrozzeria. Ora devono ricongiungersi con il papà, che li aspetta all’aeroporto per portarli a casa, nel New Jersey. Per tutto il viaggio, mentre parlo in spagnolo con loro, mi diverto a infilare l’orecchio tra due sedili per origliare la conversazione animata che si svolge dietro di noi. Un signore dal volto che non dimenticherò mai, molto simile alla vignetta WE WANT YOU e con un forte accento israeliano, tenta di convincere il suo vicino di poltrona che le cose tra Israele e Palestina peggiorano ogni giorno e che, se le cose continuano così, “qualcosa di grande” succederà di lì a poco. Difficile non credergli… Il piccolo Kenneth dal canto suo piange per tutto il viaggio, finché sua madre l’appoggia sulle mie ginocchia per andare in bagno e lui, come d’incanto, si zittisce ma solo per cinque minuti.

Rivedo Carletto che dalla Carnia è emigrato qui per partecipare alla gestione di una trattoria a Manhattan che porta un marchio tutto italiano. Spende duemila dollari al mese per l’affitto di un piccolo appartamento ma è ampiamente ripagato dallo stipendio e dalle mance. Ammette che non lo farà per sempre perché questa situazione implica moltissimi sacrifici, ma grazie a questi sacrifici sta mettendo via dei bei soldi con i quali, chissà, un giorno potrà tornare al suo paese e comprarsi una casa, metter su famiglia. Carletto è della mia generazione eppure è andato nella Grande Mela a perpetuare la fama di noi italiani: sempre in movimento, emigranti un po’ zingari, un tempo con la valigia di cartone legata con lo spago, oggi con la valigia rigida e i vestiti firmati. Ma la sostanza è ancora quella, ci piace sempre migliorarci; chissà dove e quando ci fermeremo.

Rivedo gli amici incrociati a Fort Lauderdale, dove ho passato gli ultimi tre giorni al sole quando ho scoperto che avevo scoperto abbastanza di New York ed era ora di scoprire anche il sole della Florida: Frank dal Michigan, con antichi legami di sangue in Francia ma nessuna idea, come molti suoi coetanei, di come sia fatto il Vecchio continente. Marcos il giovane surfista brasiliano, poco caratteristico nei tratti del viso ma molto carino nel modo di esprimersi e molto ferrato nella bossa nova e nei miei generi di musica preferiti. Edgar da Portorico, che per due ore mi ha martellato colle sue avance sulla spiaggia offrendomi da bere e promettendo di portarmi fuori a cena e poi a ballare. Che bel fisico aveva, scuro di pelle ma non troppo, con due occhi verdi e profondi. Rivedo le mie amiche sudamericane Betsabea e Marìa Teresa, carina ma timida la prima, un po’ grossa ma fortissima la seconda. Sulla medesima spiaggia ci siamo trovate nel tardo pomeriggio, quando hanno saputo che ero italiana sono scoppiate in una grassa risata. Da due ore parlavano in spagnolo del ragazzo di Marìa Teresa, che è di Verona e con cui lei vive una storia assurda fatta di tira e molla, di viaggi tra le due sponde dell’oceano, di fax colorati di mimose e interminabili telefonate intercontinentali. Presto vengono a sapere cosa penso dell’uomo medio italiano, dall’alto della mia esperienza, capiscono che ho un po’ il dente avvelenato e la loro soluzione è una sola: cercare un fidanzato americano. Siamo a posto penso io….

Rivedo la donna di colore, imbellettata per la messa della domenica ad Harlem, che si è alzata dal sedile dell’autobus per ammonire con un sermone improvvisato e premonitore: “Cacciate il Male, l’Anticristo è tra noi e non dobbiamo permettergli di passarci vicino per la strada o di sentire Messa insieme a noi”. L’ho scritto nel diario incredula ed ancora più incredula ho visto nove giorni dopo avverarsi le sue parole in modo tanto tragico.

Rivedo Monica, che da Milano è andata a passare alcuni mesi a New York per trasmettere alla radio le notizie e le curiosità dell’America, quelle cose che tutti vorremmo sapere e che con la verve del DJ ogni giorno trapassano l’etere per raggiungere, anche solo per due ore, milioni di italiani giovani e non. Di fatto rivedrò Monica a Natale, al suo rientro a Milano, ed è pazzesco il suo racconto dell’11 settembre, quando è stata avvisata al cellulare che qualcosa di terribile stava accadendo al World Trade Center. L’istinto della giornalista, il desiderio di vedere e riportare la notizia in diretta l’hanno fatta uscire di casa in un baleno, ma poi per fortuna non è arrivata subito alla zona del WTC e si è salvata dal crollo della seconda torre e dal successivo inferno.

Un po’ mi manca non aver vissuto anch’io in prima persona questa giornata terribile, ma sono comunque rientrata in Italia il 7 settembre e dopo ho avuto tutto il tempo, con amici e colleghi, di rivivere gli eventi soprattutto dalle parole di chi come Monica, altri colleghi e conoscenti, erano a New York o a Washington o ai quattro angoli degli Stati Uniti. Tutti, nessuno escluso, sono stati toccati o colpiti, personalmente o di riflesso, negli affetti o nel cuore, in una giornata che nessuno riuscirà a dimenticare.

Ma più di ogni altra cosa rivedo quel fantastico skyline con la luna piena e la polvere di stelle ed i suoi grattacieli riflessi nelle acque dello Hudson: dopo più di un anno, dovunque io sia, ogni volta che la luna piena fa capolino nel cielo io rivedo le torri gemelle in quella serata del primo settembre 2001, un panorama che nessuno vedrà più. Mai più.

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3 comments

Rispondi

E’ così semplice ed elementare nella sua realtà che fa ancora più male, non trovi?
Grazie Roberta per questo racconto, vero ed intenso.

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fa malissimo xk io potevo essere a NY l’11 settembre, o su un aereo (non so come dire ma ho scelto di volare in florida dal 3 al 6 settembre). grazie a te xk so che sai e capisci tutto xxx

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