12 – 13 agosto 2014
Quando saliamo su una barca di legno blu lunga e stretta ha già iniziato a piovere, non sappiamo quanto durerà. Nong Khiaw e il ponte sul fiume rimangono alle nostre spalle, il paese umido e grigio, il fiume gonfio, rosso e limaccioso sotto di noi.
Il Nam Ou è affluente del Mekong, il nostro barcaiolo lo conosce a menadito, vede tutto sotto di noi anche se andiamo controcorrente tra rapide minacciose.
Muang Ngoy Neua dista poco più di 1h, stiamo accovacciati nella barca coperta, con i bagagli nella parte posteriore, non smette di piovere nemmeno quando dobbiamo sbarcare e affrontare una salita su gradini sconnessi, scivolosi, pericolosi.
Ci dirigiamo alla guesthouse (GH) aiutati dai locali, è una fortuna stare già quassù a metà mattina perché avremmo il tempo di depositare le ns cose ed effettuare il trekking come da programma. Uso il condizionale perché ci viene consigliato di portare tutto nelle stanze in attesa che spiova, evento dato per probabile in tempi brevi, e col padrone della GH vedo subito sulla cartina dove dovremmo andare a camminare.
Il secondo trekking nel nord del Laos, al confine con Birmania e Cina (Yunnan) si svolge soprattutto in mezzo alla natura: foreste, risaie, grotte, con una scarsa presenza umana a parte qualche villaggio tribale. Abbiamo sei bungalow deliziosi sistemati a U in un giardino composto da alberi e fiori colorati resi luccicosi dalla pioggia scrosciante, che non smette.
La magia di un posto isolato, raggiungibile solo via fiume, c’è, e la mancanza di wi-fi, che dovrebbe essere l’ultimo dei pensieri in viaggio, lo rende ancora più bello. In attesa dell’auspicato miglioramento meteo perlustro il villaggio dove sprofondo nel fango fino alla caviglia.
Intorno a me, in poche centinaia di metri, incontro più galline che persone, e ancor meno turisti, ma trovo un massage parlour coi fiocchi dove il lao massage viene 60.000 kip, sei dollari, per 1h. Dei 12 membri del gruppo ne approfitta la metà, prima quattro femminucce me compresa, poi due maschietti, mentre gli altri sei godono di un relax che in due settimane (siamo appena partiti) non avremo mai più.
Non so e non mi interessa sapere che si raccontano i boys durante il massaggio, alle girls tra lo scricchiolio delle articolazioni e gli effluvi del balsamo tigre scatta un’ondata di gossip irrefrenabile su presenti e assenti, come se ci conoscessimo da lunga data. E c’è un delizioso tè allo zenzero per riprenderci dopo il massaggio.
Pausa pranzo: i boys hanno a loro volta perlustrato i dintorni convinti di poter accedere al sentiero fuori Muang Ngoy Newa dove inizia il trekking. Ma hanno trovato quasi subito un cancello chiuso perché negli ultimi anni, con lo sviluppo turistico, le autorità laotiane richiedono una sempre maggiore presenza delle guide per i gruppi di turisti, un modo come un altro per far girare l’economia di un Paese povero e non ancora molto democratico. Quindi non riescono a vedere oltre il cancello, in compenso vedono, anzi sentono, i simpatici regalini che scendono dagli alberi attaccandosi alle gambe per succhiare il sangue. Le sanguisughe sono una presenza costante nella foresta, lo sapevo ed era un buon motivo per affrontare con cautela queste escursioni, almeno in stagione monsonica. Ce la siamo cavata con poco, meglio così. Seguono relax pomeridiano, chiacchiere tra un bungalow e l’altro, ed è presto sera, quando con una Lao beer si sancisce la fine di una giornata in cui non abbiamo potuto fare quasi nulla, ma solo io mi lamento, il gruppo è contento. Cena e rientro alla GH.
La mattina dopo mi sveglio col rumore dell’acqua sulla testa sempre più scrosciante, amplificato dal tetto di legno del bungalow. In certi momenti la sento scendere proprio a secchiate, come ho verificato ieri e com’è prevedibile: a metà agosto siamo in mezzo al monsone.
Pioverà per quasi 48 ore, se fosse caduta altrettanta acqua da noi sarebbero straripati tutti i corsi d’acqua mentre qui la gente ha continuato a fare le sue cose, tutt’al più chiudendo le serrande dei negozi tanto non c’era quasi nessuno in giro, a parte noi e pochi altri turisti occidentali. Questa è l’unica esperienza di riposo in un viaggio altrimenti frenetico.
Riportiamo i bagagli a bordo della barca rischiando di scivolare nel fango sempre più spesso. Questa è l’Asia che sognavo, fatta di natura prorompente e avvolgente, con uno scenario attorno al fiume fatto di foreste apparentemente impenetrabili, sovrastate da massi e picchi calcarei avvolti da nebbia e nuvole, con l’umidità che si infila dappertutto.
L’avevo visto solo in Cina cinque anni fa: dall’acqua viene la vita per le popolazioni che vivono qui intorno, l’acqua è utilizzata nelle attività agricole (anche le risaie sono per me uno stereotipo dell’Asia) ma ne beneficia tutto l’ambiente, piante e animali. Ma quali animali? Non vediamo un solo pesce in acqua, non vediamo quasi uccelli volare nel cielo né animali selvatici nella foresta, a un certo punto anzi scambio dei bufali per elefanti selvatici!! I laotiani, per necessità beninteso, cacciano pescano e mangiano qualsiasi cosa, solo le farfalle non sono evidentemente edibili e nei mercati si vendono insetti improbabili.
Prevediamo 3h di navigazione per scendere ben più sotto di Nong Khiaw, verso Luang Prabang che però si raggiunge via terra, da quando una società cinese (!!!) ha iniziato a costruire una diga con una lunga lista di conseguenze negative prevedibili, all’ambiente e alle persone. Avvolti dal rumore della barca a motore, e soprattutto della pioggia, stiamo in silenzio ognuno coi suoi pensieri. Ma non siamo soli.
Il nostro piccolo portafortuna fa capolino tra le seggioline e la cabina di comando. Prima rivela i piedini scalzi, poi alza la testa, si nasconde, a un certo punto anche lui vuole guardarsi intorno.
Ci saluta con un sorriso e ci colpisce con lo sguardo, non vuole giocare a nascondino ma farsi riconoscere. Parla con gli occhi: occhi neri svegli e attenti, corti capelli neri su una faccina chiara e pulita. Il figlio del barcaiolo avrà quattro anni ed è bellissimo, sia quando sta serio (per finta) sia quando sorride; gli faccio decine di foto come per cogliere l’attimo, quei pochi minuti che ci sono concessi per il nostro contatto visivo.
In vista del ponte sul fiume la barca rallenta e accosta, il nostro piccolo portafortuna si alza e scende, aiutato dalla mamma che lo prende fra le braccia per poi consegnare al padre il pranzo, la schiscetta. Ripartiamo e ci lasciamo Nong Khiaw alle spalle mentre mamma e figlio sono già in cima alle scale, mano nella mano.
I bambini del Laos ci guardano con quegli occhi profondi e innocenti, sono curiosi ma non invadenti, calmi come i grandi, puri e gentili come dovrebbero essere tutti i bambini del mondo.
Anche se vestono con pochi stracci sono l’emblema della dignitosa povertà, comune a milioni di abitanti dei paesi più sfortunati del mondo.
Quando ci vedono entrare in paese ci guardano ma, schivi come sono, non ci vengono incontro. Accettano i nostri piccoli utili regali e i loro occhi brillano, ma non chiedono o sollecitano alcunché.
E stanno vicino alla famiglia, mamme e papà, come raramente ho visto nel mondo. Padri che tengono i figli in braccio o che camminano tenendoli per mano mi fanno tenerezza, è una forma d’amore e attaccamento che immagino li faccia crescere bene, insegnando loro tante cose utili per quando saranno grandi.
Ti è piaciuto questo post? Allora leggi anche gli altri, li trovi qui:
https://www.gamberetta.it/reportag/asia/ultima-fermata-angkor/
2 comments
Sara Boccolini
Una sola parola: tenerezza <3
gamberettarossa
cara sara grazie. il laos è proprio un posto di magia e pace