Désarpa è una parola strana che identifica una tradizione bellissima: la discesa delle mucche e delle capre dall’alpeggio alla fine dell’estate, prima di affrontare al calduccio della stalla i mesi più freddi dell’anno. Désarpa è il termine valdostano, ce n’è uno ancora più strano che ho imparato solo oggi: Devétéya, non so nemmeno se si scrive davvero così, in uso a Cogne. Dalle mie parti, a nordest, si chiama Desmontegada ed è un peccato che non l’abbia ancora vista (AAA amici veneti cercasi per il 2016).
Tutto inizia un anno fa a Rimini, dove al TTG la regione Valle d’Aosta ha un ampio spazio di promozione, dedicato sia ad enti pubblici sia a strutture. Li visito e inizio già a sognare, programmando un possibile soggiorno invernale (che salta) e uno estivo, portandomi via un taglierino di marmellatine che deciderò con chi condividere.
Ebbene, un mese fa ricevo via email la newsletter dell’Ente Turismo Valle d’Aosta e subito propongo alle mie amichette milanesi di andare in giornata su per monti valdostani. Affare fatto, sarà proprio un assaggio ma è pur meglio di niente! In pieno stile Zingarate domenica scorsa partiamo presto, in due ore e mezza ci lasciamo dietro il grigio umido della pianura e siamo in un posto stupendo, riscaldato da un sole direi caldo, col cielo blu sopra di noi e i primi cenni del foliage autunnale nelle (poche) latifoglie presenti.
Tutto il resto è verde e azzurro, bianco e grigio. Valgrisenche a 1660 metri slm è una località ottima sia per le attività estive, con camminate e scalate per tutte le esigenze, anche delle famiglie con bambini, sia invernali con le vicine piste da sci che tra meno di due mesi apriranno i battenti. Terra e cielo non si incontrano più in verticale, come le montagne che qui a nordovest ho visto solo poche volte e mi hanno sempre spaventato, ma nel dolce spazio di una valle e dei suoi boschi, di cascate gonfie d’acqua e della prima neve che ha imbiancato (e ingentilito) le alte montagne sullo sfondo. Io sono stata concepita nelle Dolomiti e quelle sono le mie montagne, un tripudio di colori e un’alternanza di spazi piani, declivi, cime dai profili sempre familiari, ma sono sicura che la mia diffidenza è data dalla scarsa conoscenza, una lacuna da colmare in una regione da assaggiare.
Prima di assaggiare sentiamo lo scampanio di una mandria che ha già attraversato il centro ed ora si gode l’erbetta, parcheggiata sul prato, è rumorosa, vivace e coloratissima. Ben lungi dal rispecchiare lo stereotipo dei bovini paciosi e indolenti, queste mucche (ma preferisco chiamarle vacche, il termine tecnico) di un paio di razze valdostane: pezzata rossa e nera, si confrontano a suon di cornate e tastano il terreno con le zampe anteriori, pare che siamo nel selvaggio west!
Avrei paura se non fosse che due pastori ci intrattengono e ci proteggono a debita distanza, raccontandoci con passione la differenza tra quel che mangiavano su all’alpeggio e l’alimentazione in stalla, da cui derivano i complessi profumi e la variabilità delle caratteristiche organolettiche del formaggio prodotto finora, non solo fontina! Ma noi siamo venute qui per vederle addobbate a festa, e siamo accontentate: ghirlande bianche e rosse contraddistinguono le vacche più prolifiche in termini di produzione di latte e la prima vacca che ha partorito. Ci sono anche i vitellini agghindati ma guai ad avvicinarli, sono più irruenti delle madri: si vede che sono nati in alta montagna e sono cresciuti liberi, guai a coccolarli! Il cane da pastore è tenerissimo e immerso nel suo ruolo di guardiano della mandria.
Faccio tante foto e starei qui delle ore ad ascoltare i pastori, poi mentre loro si preparano polenta e vino in un vecchio paiolo noi facciamo due passi lungo un percorso “attrezzato” con il gioco dell’oca… ma son già scese tutte le mandrie prima di mezzogiorno?
Andiamo in centro a vedere, che bel paese! Si sale tra due vie, l’acciottolato sopra e la strada asfaltata sotto, dove si incrociano case vecchie e nuove di legno, col tetto in ardesia, dall’aspetto molto curato e “green”, con balconi fioriti e notevoli viste sulla vallata.
Una piccola chiesa ci sorprende per il ricco interno, che da fuori non si direbbe proprio. Statue e cippi rimandano alle guerre e a una bella devozione religiosa, che quassù mi sembra sempre più sincera che in città.
Cerchiamo la diga, semiprosciugata, e il laghetto artificiale, io non vedo nessuno dei due ma in compenso mi sorprendo nello scorgere la sagoma imponente di un hotel che ha appena chiuso a fine stagione. A stuzzicarci i sensi sono un nuovo scampanio traditore: invece dell’ultima mandria in arrivo, che ci sfugge proprio dopo mezzogiorno, incrociamo due piccole greggi di capre, anzi caproni con un palco enorme, corna così lunghe che da lontano le scambiamo per camosci – ma a nostra discolpa devo dire che siamo donne di città!
Si scende piano e in una piazzetta vediamo bellissimi banchetti con i prodotti artigianali (legno e tessuti). I tisserands sono gli abitanti della Valgrisenche dediti all’arte della tessitura, ma ci sono anche i produttori di vino, miele e mele. Amo le mele novelle, ne prendiamo due chili per ciascuno e passiamo alle attività mangerecce.
Scendiamo da Valgrisenche capoluogo per quattro chilometri fino al ristorante (e hotel) Paramont in località Planaval. Ma che bei nomi hanno questi posti? Il menu della Désarpa comprende ben cinque portate a soli 20 euro, immaginiamo che siano i classici assaggini, le mie due amiche lo adottano con fiducia mentre io, che ho guidato e guiderò, mi limito alla polenta con formaggio.
Errore! La mia polenta è ottima e più che sufficiente, e gli altri sono tutt’altro che assaggi! Per fortuna abbiamo la freschissima acqua del rubinetto e dell’ottimo vino rosso sfuso per accompagnarci, ma a fine pranzo abbiamo la faccia di chi dovrebbe riposare. Paramont è albergo e ristorante, dove mi aspetto la semplicità di una dimora di montagna ma non riesco a chiedere al padrone, simpaticissimo e accogliente, di vedere una stanza. Solo per curiosità eh! Vorrà dire che torneremo.
Anche qui a Planaval ci sarebbe da curiosare per le stradine, ma preferiamo (erroneamente) tornare su al “capoluogo” dove il programma pomeridiano recita: H 15 visita al caseificio e cantina della fontina. Non possiamo mancare! In cima al paese decine di persone attendono come noi l’apertura del caseificio però quando veniamo a sapere che sarà alle 16 ce ne andiamo a malincuore, giusto in tempo per sentire la banda in costume intonare la sua musica.
Niente fontina, chissà se potremmo trovarla in città: salutiamo Valgrisenche augurandoci che rimanga uguale nei secoli a venire. Ci aspetta una passeggiata leggera per le vie di Aosta, per noi sconosciuta, potrebbe diventare occasione di shopping. Ma facciamo le brave, parcheggiando l’auto in piazza della Repubblica seguiamo lentamente le vie pedonali entrando solo in due negozi, all’inizio e alla fine del giro. Nel primo c’è una montagna di pezzi d’arredamento e accessori che l’invadono sino al soffitto, adatti per riempire sia una casa di città sia di montagna; nel secondo ci sono tessuti di lana peruviani venduti da una ONLUS. Le mie amiche cedono, io strabuzzo gli occhi per la bellezza e i colori utilizzati ma tengo le mani dietro la schiena. In mezzo c’è una cittadina viva, attiva ma sobria, a volte austera, capoluogo della regione più piccola situata in un angolo d’Italia che era strategico già in epoca romana, il cui simbolo è proprio l’arco di Augusto punto finale della nostra passeggiata. Andateci al mattino se potete, è tutto rivolto a est e alle ore 18 fa impressione soprattutto per la sua mole scura.
Gli abitanti si confondono con i numerosi ospiti, anche stranieri, ma nessuno fa confusione preferendo un godimento intimo della bellezza discreta di Aosta. Bellezza che si esprime nei palazzi e nelle piazzette, in botteghe vecchie e nuove, in due piccole grandi chiese.
La cattedrale è disarmante con la facciata che dice qualcosa, ma che all’interno ha una stratificazione stupefacente dal Medioevo ai giorni nostri e tante opere d’arte raccolte in un piccolo museo.
La chiesa di Sant’Orso è però un posto così unico che ce ne andiamo solo quando fa buio e ne chiudono le varie parti: il corpo centrale, la cripta e soprattutto il magico chiostro contornato da colonne, a volte binate, con splendidi capitelli che raccontano un ciclo di storie bibliche e un pozzo al centro. Li fotografo quasi tutti, presa da una forma inusuale di sindrome di Stendhal. Ci fa compagnia il vescovo in abito e in missione ufficiale con un drappello di fedeli ben vestiti, e in disparte camerieri che allestiscono un evento.
Dispiace andarcene ma il tempo è tiranno, fa buio e dobbiamo tornare a Milano. Ripassiamo nella grande piazza del municipio, dove stanno disfando gli stand che di giorno hanno invitato gli aostani a praticare attività sportive ma anche ad effettuare controlli medici di prevenzione.
Ci piace questo modo di far crescere i giovani, conciliando la voglia di divertirsi con la salute. Non dev’essere facile affrontare i freddi mesi invernali in montagna e nei paesini, dove una volta si stava perché si doveva stare ma da dove presumo che siano scappati in tanti, preferendo i sacrifici ma anche gli agi di un ambiente meno puro ma più “normale” secondo gli standard comuni. Se poi qualcuno sbaglia lassù o quaggiù non c’è da sorprendersi, alcool e droghe portano facili illusioni che però poi si pagano tutte. Il rientro in autostrada è tranquillo, la strada è illuminata dalle sagome dei castelli e fortezze, possenti e inespugnabili, per cui oggi non c’è stato tempo. Ma quanti e quanto belli sono? Non faccio nomi, ma per me saranno tutti una scoperta, voglio visitarli tutti! Questa è la prima scusa con cui voglio tornare presto nella bellissima Valle d’Aosta, ma voglio anche andare alle terme, fare sport, visitare le cantine. Non sarò come i pazzi delle ultramaratone che hanno appena finito il Tor des Géants, ora sto cercando di capire che roba è: 300 km da percorrere in meno di una settimana su e giù per le alte vie della Valle d’Aosta. Sono pazzi! Io e le mie amiche invece non abbiamo fretta, la prossima volta ci sarà un’altra Valle d’Aosta da assaggiare.
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