Tra meno di tre mesi ricorrerà il quarantesimo anniversario del terremoto del Friuli. Il 6 maggio cadrà di venerdì, mentre nel 1976 era mercoledì, lo ricordo bene. Alle nove di sera intorno al Monte San Simeone si sviluppò un’onda sismica spaventosa che dalla Carnia mise in movimento la terra fino a valle, portando morte e distruzione sopra e sotto la terra, nelle cose e nelle case, nei corpi e nelle anime dei friulani. La regione Friuli è cambiata per sempre e, paradossalmente, dal dramma del terremoto è stata indirizzata verso lo sviluppo e la modernità di oggi.

Il sisma del 1976 è stato il terzo grosso terremoto a colpire la regione, dopo quelli del 1300 e 1500 altrettanto distruttivi. Diversamente da altri luoghi colpiti da cataclismi e catastrofi naturali, la ricostruzione operata dai friulani non è stata all’insegna dell’oblio e della cancellazione, anzi. Accanto al dov’era com’era essi hanno colto l’occasione per migliorarsi, dotarsi di infrastrutture e nuovi insediamenti produttivi e – fatto non meno importante – dedicare alcuni luoghi alla memoria del terremoto. Uno di questi è la sede di Tiere Motus esposizione permanente collocata all’interno di Palazzo Martina a Venzone, che ho visitato due anni fa proprio a maggio durante il blogtour promosso da Adristorical Lands, programma transfrontaliero dedicato alle terre che si affacciano sul mare Adriatico.

Tiere Motus è un’esposizione permanente ricca di testimonianze, immagini foto e video, installazioni multimediali che costituiscono un unico grande racconto di quella drammatica serata del 6 maggio 1976, che segnò come un solco indelebile la frattura tra il Friuli arretrato e un po’ isolato di prima, contrapposto alla terra fertile (ma non priva di problemi) di oggi. Per soffrire almeno un po’ ed emozionarsi un attimo, in una sala si può provare l’Orcolat, il simulatore del terremoto che per un lunghissimo minuto vi farà fare un’esperienza da brivido, sballottati e storditi, circondati dal mondo che sembrerà crollarvi addosso.

Casomai non lo sapeste i friulani sono gente tosta, come si sono ripresi loro non so se l’abbiano fatto altre persone la cui vita è stata distrutta da un terremoto. Pochi lamenti, maniche rimboccate, lacrime e dolore gestito in silenzio; avranno per sempre la mia ammirazione. Gli studiosi l’hanno chiamato Modello Friuli ma io lo chiamo anche tenacia, voglia di ricominciare a vivere senza rinnegare le proprie radici. Proprio grazie al Modello Friuli fu possibile in seguito programmare i soccorsi post terremoto in modo efficace e professionale, o almeno utilizzare l’esperienza friulana per limitare errori e problemi.

Mi preme ricordare che i soccorsi e i soccorritori arrivarono da vicino e da lontano, erano composti non solo dai corpi dello stato preposti (alpini e altri militari, vigili del fuoco, una protezione civile appena agli inizi diversissima da oggi) ma anche da tanti volontari che si dedicarono al Friuli nei mesi successivi alla tragedia per soccorrere e confortare la gente che aveva perso tutto. Inclusi i miei meravigliosi amici dei Gruppi Archeologici che avrei conosciuto dieci anni dopo negli scavi, in Toscana e Lazio, e che solo ora (grazie a Facebook) ho conosciuto nella veste di soccorritori al servizio delle persone terremotate e a supporto della ricostruzione.

Prima di rimettere in piedi gli edifici furono allestite le tendopoli dove i superstiti avrebbero passato l’estate, poi i prefabbricati per difendersi dal rigido inverno e i cantieri per la ricostruzione definitiva. Questo slancio partecipativo è da incorniciare perché oggi le regole, le imposizioni di sicurezza e i cavilli burocratici avrebbero reso le cose più ordinate ma anche più complicate, ne sono certa. Tra i postumi del terremoto ci fu un esodo coatto dall’epicentro, il desiderio di guardare avanti e ricominciare a vivere, il riscatto. Credo che il ritorno a casa dei friulani, migliaia di persone che per decenni erano emigrate, andate lontano in cerca di condizioni di vita migliori, sia cominciato proprio all’indomani del terremoto con la ricerca del miglioramento nella propria terra d’origine. Per ricominciare a seminare e raccogliere.

Se andate in Carnia visitate Tiere Motus e, già che siete a Venzone, cercate le sue famose mummie purtroppo non sempre visitabili. Entrate nel duomo, resterete a bocca aperta nel vedere come ogni piccolo pezzo caduto a terra è stato messo vicino agli altri per ricomporre il tutto dov’era com’era tessera dopo tessera, un frammento accanto all’altro. Anastilosi si chiama in termine tecnico.

Dieci anni dopo, alla fine del 1986, sono arrivata a Udine per studiare Agraria, quelli dell’università sono stati i migliori anni della mia vita. Anche l’università di Udine era figlia del terremoto e segno del riscatto di un popolo. Non so quanti miei compagni venissero dalla Carnia ma ricordo bene le storie che mi hanno raccontato. Con la faccia seria e gli occhi persi nel vuoto, forse con poca voglia di raccontare, mi hanno consegnato i loro aneddoti coloriti dalle loro espressioni, dall’intercalare che ho imparato nei miei cinque anni friulani. Ma questa è un’altra storia, sono altre storie che mi piacerebbe raccogliere. Per non dimenticare.

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In Friuli a passeggio nella storia, Maggio 2014

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